Libridine: Apocalisse in pantofole

Siracusanews.it – Maria Luisa Maricchiolo, 22 ottobre 2011

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Una fine, anomala. Una fine da cui tutto ha inizio. Una storia e il suo racconto. “E allora pensavo che se avessi scritto un libro lo avrei ambientato in un tempo finale, perché così ci sarebbe stato solo da guardarsi indietro e fare due conti”. È quello che, meta-letterariamente, succede per Apocalisse in pantofole, esordio al romanzo di Francesco Franceschini (Verbavolant Edizioni, pp. 208, euro 13,00). Il titolo lascia presagire lo straniamento che avvolge le pagine dell’opera. Un’apocalisse sottotono, senza squilli di trombe, né cavalli né stravolgimenti violenti; piuttosto una fine del mondo lenta, goccia a goccia, che incombe con passo felpato. Siamo lontani dal fantascientifico o fantasmagorico, nessuna profezia dei Maya; ma un cielo meringa, un caldo appiccicoso e un mare quasi secco, a cui però, ci si abitua. Ci sia abitua Edoardo, ex vincitore di reality che vive sul solco di una fama opalescente, protagonista e voce narrante; ci si abituano i suoi amici Michele e Giovanni, rispettivamente scrittore di noir per grazia di una condanna in carcere e assessore alla cultura tutto presenze e apparenze; e ci si abituano i personaggi che orbitano attorno a questo stralunato caso. Franceschini lavora di fantasia, di eccessi improbabili ma non impossibili, e di riflessione. Le scene dove domina il dialogismo si alternano ora a brani che focalizzano il ritratto di un personaggio, come un restringimento di campo che si trasforma in piano, se si usasse la macchina da presa; ora a passi di discorso indiretto libero, in cui Edoardo monologa su di sé e sul mondo.

L’apocalisse, perciò, è un buon espediente per raccontare di uomini e donne al bivio. Un bivio a cui guardano solo con la consapevolezza di una fine, e senza la quale, altrimenti, avrebbero continuato a ignorare. Procedendo nella lettura, la fine “tecnica”, lo spegnimento fisico del mondo, si dimentica, se non fosse per le incursioni di descrizioni di un pianeta in disfatta. Le scene che Franceschini distribuisce nel testo sono di per sé portavoce di una fine, o meglio, di una decadenza. E una decadenza è, forse, anche peggiore di una fine. Al seguito di Edoardo e dei suoi squinternati amici ci affacciamo su scenari che non ci sono affatto insoliti: una presentazione di liriche di una sedicente poetessa che lavora di rima cuore-amore, la tv d’intrattenimento melodrammatica e strappalacrime, i nasi rossi dei clown ospedalieri tra gli occhi cerchiati dei malati e dei loro familiari, la serata mondana per una raccolta fondi. Franceschini indaga sulle possibili reazioni dinanzi a una fine annunciata, sulle scelte che non si possono più rimandare. Così c’è chi come Michele decide di svuotare casa, chi come Giovanni smette di giocare con la politica e chi come Edoardo fa una cosa sola, “quel che le preme”, come gli suggerisce un domatore di tigri incontrato per caso una notte. Un’epifania. Come Corso, un soffio di vento leggero, come la gioventù che non si arrende, come un sogno. I personaggi di Franceschini sono tratteggiati con movenze realistiche su sfondi paradossali quando non irreali, ed è proprio questo mix a creare straniamento nella lettura. Edoardo, con le sue paranoie di finire in galera mentre annaspa nell’inganno-vendetta della sua bella Ariela, sembra uscire da una costola di Benjamin Malaussene.

La lingua di Franceschini è un’escursione attraverso vari registri: colloquiale, intimo, slang giovanili. Muoviamo un appunto sull’uso dell’apposizione “amico” per rivolgersi a un “tu” estraneo in maniera informale, che tradisce una frequentazione di opere americane in traduzione. Il romanzo non ha nulla di comico, piuttosto di ironico con fondi di amarezza. È un racconto che sembra nascere da un sudore freddo, da una paura per un mondo in disfacimento e che vuole esorcizzare questa paura rifugiandosi, per brevi tratti, nel fantastico. È l’interrogativo di un figlio-padre sulle responsabilità, individuali e collettive. Franceschini con la sua “apocalisse in pantofole”, seppur prospettando il peggio, promette bene. Ci conquista con una sua rammemorazione, semplice ma essenziale: “Voler bene ci aiuta a sopravvivere. Forse anche alla fine del mondo”.

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